Frate Rufino (accoglienza)

Capitolo VII: Dovere di stato - costruzione di un mondo fraterno ed evangelico

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San Francesco d'Assisi« Andate anche voi nella mia vigna » ! Quest’invito del Signore ci scuote dal nostro stato di attesa inerte e ci da’ una sorta di  « itinerario » da vivere ogni giorno. La meditazione di questo energico invito ci permetterà di scoprire i diversi significati che la Parola di Dio contiene. Francesco ci aiuterà in seguito a capire cio’ che è un fratello secondo il cuore di Dio. Ma a cosa serve andare alla vigna del Signore e costruire un mondo fraterno ed evangelico ? Lo studio di alcuni articoli della nostra regola (10, 14, 15 et 16) ci permettarà in particolare di apportare una risposta a questa questione, « a cosa serve » : affinché avvenga il Regno di Dio.

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ANDATE, ANCHE VOI, NELLA MIA VIGNA

Apriamo questo capitolo con la meditazione di un testo che costituisce uno dei gioielli del Vangelo secondo Matteo: la parabola degli operai inviati alla vigna. Facendo questo, eserciteremo la nostra anima a meditare la Parola di Dio. In effetti, quando il Signore si rivolge a noi, la Parola che egli pronuncia non si rinchiude in dei semplici limiti umani. Ella ci trascina verso i disegni di Dio.

Come preambolo a questa pagina del Vangelo, ricordiamoci che all’epoca di Cristo è frequente che dei lavoratori siano ingaggiati alla giornata. Si tratta di “giornalieri” che ricevono la loro paga la sera stessa alla fine della loro giornata di lavoro. La giornata è allora “suddivisa” in dodici ore, dalle sei del mattino (la prima ora) alle diciotto (la dodicesima ora).

Parabola degli operai inviati nella vigna

Gesù disse questa parabola: "Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò.” Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?” Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata.” Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna.” Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama gli operai e dá loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi.” Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo.” Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”

Così gli ultimi saranno i primi, e i primi saranno gli ultimi".

Come decriptare i messaggi di una parabola?

Le parabole sono come degli specchi per l’uomo: questi accoglie la parola come un suolo duro o come una terra buona? Ce cosa fa dei talenti ricevuti? Gesù e la presenza del Regno in questo mondo sono segretamente nel cuore delle parabole. Per comprenderle, dobbiamo diventare discepoli di Cristo, per «conoscere i misteri del Regno dei cieli» (Mt 13 11). Per coloro che restano «fuori» (Mc 4 11), tutto sembra enigmatico * estratto da CEC 546.. Quando i discepoli chiedono a Gesù perchè parla in parabole, Gesù risponde loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. 17 In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l’udirono!» (Mt 13 11...17).

Siccome le parabole erano dette in un linguaggio «criptato», noi dobbiamo:

  1. cominciare con lo scoprire i diversi personaggi messi in relazione: chi sono in rapporto a Dio, in rapporto agli uomini (ed in particolare, in rapporto a me)?
  2. scoprire in seguito il significato dato alle altre creature: che cosa rappresenta la vigna, il salario, le ore, …?
  3. scoprire infine il senso dato ai diversi inviti, alle domande, ai dialoghi: in conclusione, che cosa vuole dirci Gesù attraverso le diverse parabole.

Rispondendo a queste domande, cercheremo di «penetrare» i misteri di questa parabola per comprendere cio’ che il Signore vuole dirci, sia sul piano spirituale (allegorico * Il senso spirituale allegorico. L’allegoria è l’espressione di un’idea attraverso un’immagine. In riferimento alla Parola di Dio, è il senso che permette una compresnione degli avvenimenti proclamati riconoscendo il loro significato in Cristo. La liberazione dall’Egitto raccontata nell’Esodo, per esempio, è un segno della liberazione dal peccato operata da Cristo. CEC 111 e seg. e anagogico * Il senso spirituale anagogico. L’anagogia è l’azione di portare in alto, è l’elevazione dell’anima verso le cose celesti. Il sesno anagogico consiste quindi nel vedere, nella Parola di Dio, le realtà e gli avvenimenti nel loro significato eterno, che ci conduce (in greco: anagoge) cosi’ verso la Gerusalemme celeste. CEC 111.) che sul piano dell’applicazione concreta nella mia vita personale (è il senso spirituale morale * Il senso spirituale morale, ossia quello che consiste a comportarci nella nostra esistenza conformemente alla volontà divina. In altre parole, l’ascolto della Parola di Dio deve tradursi in un cambiamento nella nostra vita. Essere cristiano, significa che “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. CEC 111 e seg. ).

La nostra vocazione comune: la beatitudine del Regno dei Cieli

Il proprietario che esce all’alba è Cristo. Dio si fa uomo; «Esce» dal Regno dei Cieli e scende sulla terra.

Sulla terra, chiama degli operai e questi operai sono gli uomini. Li chiama tutti: «Andate anche voi nella vigna. Potremmo personalizzare l’invito traducendo: «Va, anche tu che ascolti questa Parola di Dio oggi, alla vigna del Signore.»

La vigna è il mondo intero. Questo deve essere trasformato secondo il disegno di Dio, in vista dell’avvenimento definitivo del Regno di Dio. Poichè il destino finale di ciascuno, l’obiettivo potremmo dire con le parole di oggi, il salario della parabola, è di essere nella beatitudine del Regno dei Cieli. Là ci riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco cio’ che sarà alla fine senza fine. E quale altra fine abbiamo noi, se non di pervenire al regno che non avrà mai fine? * S. Agostino, civ. 22 30. Ricordiamoci sempre che Dio ci ha messi al mondo affinchè Lo conosciamo, Lo serviamo e Lo amiamo. Se agiamo in tal modo sulla terra, allora si realizza la promessa che noi abbiamo ricevuto da Dio, che ci accoglierà nel suo Regno:

"Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli… Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli " (Mt 5 3-12).

Ma questo Regno di Dio non è destinato solo a me. Il mondo intero vi è chiamato. Sapendo che nella parabola, l’insieme delle ore del giorno è simbolo della durata della nostra esistenza, alcuni di noi sono chiamati di buon’ora, ossia fin dal mattino della loro vita (la prima ora). In riferimento al contesto della parabola si trattava del popolo ebraico. Più largamente, si tratta ora di ogni battezzato «nelle braccia dei suoi genitori». Alcuni hanno la fortuna di poter conoscere, amare e servire Dio fin dalla loro più giovane età. Ed è per tutta la loro esistenza, ossia «per tutto il peso della giornata ed il caldo» che sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore. Il caso del luogo di nascita (poichè nessuno sceglie la famiglia in cui nasce, né la sua nazione, né la sua religione) fa si’ che altre persone sentiranno la chiamata del Signore soltanto durante il corso della loro esistenza: Andate anche voi nella mia vigna. Questi sono gli operai della terza, sesta o nona ora, ore che simboleggiano l’avanzare nell’esistenza: vent’anni, quarant’anni, sessant’anni. In ogni caso, senza mai cessare, il Signore chiama ogni uomo al Regno: «Andate anche voi nella mia vigna». Persino fino alla fine, fino all’ultima ora dell’esistenza umana: «Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là… e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.» Questi ultimi, alla domanda del padrone: «Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?» avevano risposto: «Perché nessuno ci ha presi a giornata.» Nessuno, fino a quel momento, aveva detto loro o aveva fatto loro sapere che il padrone assumeva gente per lavorare nella sua vigna. * Commentando questa pagina del Vangelo, San Gregorio il Grande interpreta le diverse ore della chiamata, come le diverse età della vita: «Si puo’ applicare la diversità delle ore alle diverse età dell’uomo. Il mattino puo’ certamente rappresentare, secondo la nostra interpretazione, l’infanzia. La terza ora puo’ rappresentare l’adolescenza: il sole si sposta verso l’alto del cielo, cosa che significa che l’ardore dell’età aumenta. La sesta ora è la giovinezza: il sole si trova come in alto nel cielo, in quest’età in cui, diciamo, si rinforza la pienezza del vigore. La vecchiaia rappresenta la nona ora, perchè, cosi’ come il sole declina dal suo punto più alto, anche questa età comincia a perdere l’ardore della giovinezza. L’undicesima ora indica coloro che sono in età avanzata… Gli operai, quindi, sono chiamati a lavorare nella vigna a delle ore differenti, come per significare che uno è chiamato alla santità al momento della sua infanzia, un altro nella sua giovinezza, un altro in età matura ed un altro ancora in età più avanzata». (S. Gregorio il Grande, Hom. in Evang., XIX, 2: PL 76, 1155.)

Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te

Quest’affermazione del padrone della vigna rinvia alla redenzione di Cristo. Dio fatto uomo si è incarnato ed ha versato il suo sangue per la salvezza di tutti. Nessuno di noi si puo’ dire proprietario del sangue di Cristo. Nessun uomo puo’ affermare: il sangue di Cristo appartiene più a me che a te in ragione delle mie opere. Cristo, la vigilia della sua Passione, precisa chi sono i beneficiari del suo corpo e del suo sangue: « Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi… Questo è il mio sangue versato per molti». I molti siamo tutti noi, i poveri, i piccoli, i peccatori. Poveri di vista, noi che guardiamo con un occhio malvagio la bontà di Dio; piccoli al punto di credere di aver diritto al primo posto, mentre dovremmo dirci inutili; poveri a causa dei nostri peccati, fortunatamente riscattati grazie al sacrificio del Figlio dell’uomo offerto all’amore misericordioso del Padre.

La parabola degli operai contiene due lezioni spirituali: la prima è che il piano divino assicura, anche ai convertiti dell’ultima ora, la ricompensa promessa da parte di Dio. La testimonianza di una tale certezza ci è ricordata con forza alla fine del dialogo tra il buon ladrone et Cristo in croce: quello che viene dunque chiamato “buon ladrone” è un vero criminale, che considera che quello che sta succedendo per se e per il suo compagno di sventura è giusto. Tuttavia si rivolge al Salvatore: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". E Gesù gli risponde: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso".» (Lc 23; 40-43). La seconda lezione, è che non bisogna mai mormorare contro la misericordiosa giustizia di Dio. Coloro che credevano di avere dei diritti in virtù delle loro opere buone, di una vita intera consacrata alla giustizia o più semplicemente, in virtù della loro nascita nel popolo eletto, continuavano a mormorare contro questa giustizia divina che sembrava loro imperfetta; in quello stesso momento si escludevano: è in questo modo che gli ultimi saranno i primi e che i primi saranno gli ultimi.

Andate anche voi nella mia vigna: una chiamata rivolta a me

Proiettiamo ora questa parabola nella nostra vita di oggi. «Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna”. La chiamata del Signore Gesù continua a farsi sentire fin da quel giorno lontano della nostra storia. La chiamata non si rivolge soltanto ai Pastori, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose; si estende a tutti: anche i fedeli laici sono chiamati personalmente dal Signore, da cui ricevono una missione per la Chiesa e per il mondo. Egli si rivolge ad ogni uomo venuto in questo mondo. * L’essenziale del testo che compone questo paragrafo ed anche i due paragrafi seguenti, è estratto dall’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, esortazione post sinodale Christi fideles laici (i fedeli laici) sulla vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo (Edizioni Pierre TEQUI 1988). San Gregorio il Grande, commentando la parabola degli operai nella vigna ci ammonisce: «Esaminate quindi un po’ o miei fratelli, il vostro modo di vita e verificate bene se siete già operai del Signore. Che ciascuno giudichi quello che fa e si renda conto se lavora o no nella vigna del Signore.» * Cf. Ibid Nella parabola, il padrone si stupisce del fatto che alcuni restino senza fare niente: Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Il «padrone della vigna» ripete ancora più insistentemente: Andate anche voi nella mia vigna. Nella vigna, dove c’è tanto lavoro per tutti, non c’è posto per l’inazione. Questo significa forse che, a voler agire «a tutti i costi» si possa fare «qualisasi cosa»? Concretamente, possiamo ricordare due tipi di tentazione a cui i laici non hanno sempre saputo resistere: una è la tentazione di consacrarsi con un interesse cosi’ vivo ai servizi ed ai compiti della Chiesa da arrivare talvolta al punto di disimpegnarsi praticamente dalle responsabilità specifiche nel campo familiare, professionale, sociale, economico, culturale e politico; l’altra, al contrario, è la tentazione di legittimare l’ingiustificabile separazione tra la fede e la vita, tra l’accogliere il Vangelo e l’azione concreta nei più svariati campi temporali e terrestri.

Ma per me, che sono laico, dove si trova la vigna?

Il nostro sovrano Pontefice Pio XII afferma: «I fedeli, e più precisamente i laici, si trovano sulla linea più avanzata nella vita della Chiesa; per loro la Chiesa è il principio vitale della società umana. Per questo, soprattutto loro devono avere una coscienza sempre più chiara, non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa, ossia la comunità dei fedeli sulla terra, sotto la guida di un Capo comune, il Papa, e dei Vescovi in comunione con lui. Essi sono la Chiesa.» * Pio XII, Discorso ai nuovi cardinali (20 febbraio 1946) : AAS 38 (1946), 149. Sapendo che il carattere secolare è il carattere proprio e particolare dei laici, * Conc. Ecum. Vat. II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 5. ne consegue che il luogo in cui viene loro rivolta la chiamata di Dio deve essere inteso in termini dinamici: sul loro posto di studio, di lavoro, là dove sono i loro rapporti amicali, sociali, professionali, culturali. Essi non sono invitati ad abbandonare la posizione che occupano nel mondo. Il battesimo, in effetti, non li ritira dal mondo, cosi’ come sottolinea l’apostolo Paolo: «Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato.» (1 Co 7 24). Ma il battesimo affida loro una vocazione che concerne giustamente la loro situazione nel mondo: i fedeli laici, in effetti, sono «chiamati da Dio a lavorare come dall’interno alla santificazione del mondo, come un fermento, esercitando i loro propri compiti sotto la guida dello spirito evangelico, e per manifestare Cristo agli altri innanzitutto attraverso la testimonianza della loro vita, splendendo di fede, di speranza e di carità.» * Conc. Ecum. Vat. II, Const.dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 31.Il Verbo Incarnato in persona ha voluto entrare nel gioco di questa solidarietà. Ha santificato i legami umani, in particolare quelli della famiglia, fonte della vita sociale. Si è volontariamente sottomesso alle leggi della sua patria. Ha voluto condurre la vita di un artigiano del suo tempo e della sua regione.

Le immagini evangeliche del sale, della luce e del lievito, anche se si riferiscono indistintamente a tutti i descepoli di Gesù, si applicano in modo del tutto speciale ai fedeli laici. Sono delle immagini meravigliosamente significative, perchè traducono non solo l’inserimento profondo e la partecipazione totale dei fedeli laici nel mondo, ma soprattutto la novità e l’originalità di un inserimento e di una partecipazione destinati alla diffusione del Vangelo che salva.

Tutto quello che dite e tutto quello che fate sia sempre nel nome del Signore Gesù Cristo, offrendo per Lui la vostra azione di grazie a Dio Padre

La prima e fondamentale vocazione che il Padre offre in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo ad ogni laico è la vocazione alla santità, ossia la perfezione della carità. Lo Spirito Santo che santifica la natura umana di Gesù nel seno virginale di Maria è lo stesso Spirito che dimora ed opera nella Chiesa per comunicarle la santità del Figlio di Dio fatto uomo. E il santo è la testimonianza più eclatante della dignità conferita al discepolo di Cristo. Tutti, nella Chiesa, proprio perchè sono i suoi membri, ricevono e quindi condividono la vocazione comune alla santità. La vocazione dei fedeli laici alla santità esige che la vita secondo lo Spirito si esprima in maniera perticolare nella loro inserzione nelle realtà temporali e nella loro partecipazione alle attività terrestri. È ancora l’Apostolo che ci ammonisce: «E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.» (Col 3 17). Applicando le parole dell’Apostolo ai fedeli laici, il Concilio afferma con grande fermezza: «Né la cura della famiglia, né gli affari temporali devono restare estranei alla loro spiritualità». * Conc. Ecum. Vat. II, Decreto sull’apostolato dei laici Apostolicam actuositatem, 4. Dopo di loro, i Padri del Sinodi hanno dichiarato: «L’unità della vita dei fedeli laici è di un’importanza estrema: devono, infatti, santificarsi nella vita ordinaria, professionale e sociale. Affinchè possano rispondere alla loro vocazione, i fedeli laici devono quindi considerare la loro vita quotidiana come un’occasione di unione a Dio, di compimento della sua volontà, e anche di servizio verso gli altri uomini, portandoli fino alla comunione con Dio in Cristo.» * Propositio 5.

Concludiamo con questa immagine biblica della vite e dei tralci. Essa riassume quali sono queste radici indispensabili che permettono a ciascuno, in comunione con il resto della vigna, di portare frutto in abbondanza. La nascita e l’espansione dei tralci dipende dal loro inserimento nella vigna: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.» (Jn 15 4-5).

COSTRUZIONE DI UN MONDO FRATERNO E EVANGELICO

Ritroviamo ora Francesco in partenza per la Siria per predicare la fede cristiana e la penitenza ai Saraceni. Il raconto che segue è estratto dalla Vita Prima di Tommaso da Celano. Si tratterà degli estratti del capitolo 20. La prima lettura di questo racconto ti lascerà forse perplesso? In effetti, cio’ che sembra essere il tema principale del capitolo (l’incontro di Francesco con il Sultano), non prende più spazio che i numerosi commentari, apparentemente digressivi, che lo precedono! Noi vedreo, tuttavia, l’unità che regna in questo racconto e cio’ che in fondo Celano cerca di farci scoprire riguardo al pensiero e all’agire di Francesco d’Assisi.

Francesco desidera il martirio; viaggi in Spagna e in Siria

Bruciante d’amore per Dio, il beato Padre Francesco vuole sempre lanciarsi in grandi avventure e il suo grande cuore ha l’ambizione di raggiungere, seguendo le vie e la volontà di Dio, la vetta della perfezione. Csoi’, nel sesto anno dalla sua conversione, bruciando dal desiderio del martirio, decise di recarsi in Siria per predicare la fede cristiana e la penitenza ai Saraceni.

Francesco si imbarca quindi su una nave, ma i venti sono contrari e si ritrova su una costa ad appena 150 km. di distanza dal punto di partenza, con tutti gli altri passeggeri; le sue grandi speranze sono vanificate.

Francesco, servitore di Dio Altissimo, abbandona quindi il mare e se ne va a percorrere la terra; lavora la terra con il vomere della sua parola e spande il buon grano della Vita che offre ricche mietiture; sono numerosi, in effetti, gli uomini degni e generosi, chierici e laici, che vengono a condividere la sua vita. Toccati dalla grazia dell’Altissimo, vogliono fuggire il mondo e combattere coraggiosamente il demonio. Ma, anche se l’albero evangelico produce a profusione dei frutti di qualità, il sublime desiderio del martirio non perde di ardore nel cuore di Francesco. Quindi, poco tempo dopo, prende la via del Marocco per predicare il Vangelo di Cristo a Miramolino ed ai suoi correligionari. Questo desiderio che lo porta è cosi’ potente che egli distanzia a volte il suo compagno di strada e corre, ebbro dello Spirito, a realizzare il suo progetto. Ma Dio, nella sua bontà, ha ben voluto preoccuparsi di me (Tommaso da Celano) e di molti altri: Francesco si è già reso in Spagna quando Dio gli resiste di fronte e, per impedirgli di andare più lontano, lo colpisce con una malattia che lo forza ad interrompere il suo viaggio.

Poco dopo il suo ritorno a Santa Maria della Porziuncola, si presentano dei nuovi discepoli, nobili e letterati. Con la sua nobiltà d’animo e con il suo raro senso della situazione, li sa ricevere con onore e dignità, rendendo a ciascuno quanto gli è dovuto. Dotato di un discernimento eccezionale, tiene conto del valore e della posizione di ciascuno. Ma non trova riposo per la sua anima fin tanto che non ha dato campo libero ai suoi slanci. Per queso motivo, il tredicesimo anno dopo la sua conversione, fa vela verso la Siria, dove i cristiani sostengono ogni giorno contro i pagani dei combattimenti duri ed eroici. Prende con sé un compagno e senza paura parte ad affrontare il Sultano dei Saraceni.

Chi potrebbe descriverlo, mentre tiene testa intrepidamente, mentre parla con coraggio, mentre risponde con sicurezza a quelli che insultano la religione di Cristo? Viene fermato dalle guardie ancora prima di arrivare davanti al Sultano, viene ingiuriato e picchiato, ma lui non si spaventa; viene minacciato di morte, ma lui non si turba; gli viene promesso il supplizio, ma lui non si smuove. Dopo essere stato l’oggetto di tanto odio, viene infine ricevuto con grarnde cortesia dal Sultano che gli fa grandi manifestazioni del suo favore e gli offre molti doni per cercare di inclinare il suo animo verso le ricchezze del mondo. Ma constatando che Francesco respinge energicamente tutti questi beni, resta stupefatto e lo considera un uomo straordinario; lo ascolta volentieri e si sente penetrare dalla sua parola… Ma anche qui il Signore si rifiuta di esaudire i desideri del santo: si riserva di accordargli il favore particolarissimo di un’altra grazia.

La conversione, premessa alla costruzione di un mondo fraterno ed evangelico

Non è curioso il fatto che Tommaso da Celano situi i diversi avvenimenti citati in questo racconto non a partire da delle date, come avrebbe potuto fare uno storico, ma facendo unicamente riferimento ad un avvenimento, ad un fatto che, del resto, non viene nemmeno situato nel tempo? Tommaso da Celano ci fa sapere qui che il primo tentativo fatto da Francesco per andare in Siria è stato nel sesto anno dopo la sua conversione. Utilizza la stessa formulazione per la seconda partenza per la Siria: nel tredicesimo anno dopo la sua converione. A dire il vero, sembrerebbe che l’insieme del racconto si articoli attorno a questo fatto: la conversione di Francesco. Nel primo capitolo di questo manuale, abbiamo scoperto qual è stato

quell’avvenimento della vita di Francesco chiamato conversione da Tommaso da Celano: si trattava dell’incontro con il lebbroso e di tutto cio’ che ne era risultato per Francesco. Nel suo Testamento, Francesco racconta la sua conversione (altrimenti designata dalla paorla penitenza), precisandone l’origine: Ecco come il Signore diede a me fratello Francesco, la grazia di cominciare a fare penitenza. Per Francesco, all’origine della sua conversione c’è il Signore. È Lui il pastore che è venuto a cercare la pecorella smarrita: Nel tempo in cui io ero ancora nei peccati, mi riusciva insopportabilmente increscioso vedere i lebbrosi. Ma il Signore stesso mi condusse in mezzo a loro. La conversione è la risposta dell’uomo alla chiamata di Dio che l’invita ad entrare in comunione con Lui. Questa conversione comporta due aspetti che potremmo definire indissociabili: 1/ il cambiamento interiore radicale, che Francesco riassume nel suo testamento con queste parole: In seguito, attesi poco per dire addio al mondo; 2/ e gli atti esteriori che questa conversione comanda: curai i lebbrosi con tutto il mio cuore. Entrare in comunione con il Padre di tutti gli uomini, passa necessariamente attraverso il compiere la sua volontà.

Con gioia, Francesco fa la parafrasi della preghiera del Padre Nostro e svuiluppa, con un equilibrio ed un ordine perfetti, questo doppio aspetto della conversione quando arriva al compimento della volontà del Padre:

Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosi’ in terra:

affinchè ti amiamo con tutto il cuore,

pensando sempre a te;

con tutta l’anima,

desiderando sempre te;

con tutta la mente,

dirigendo tutte le nostre intenzioni a te,

cercando in ogni cosa il tuo onore;

e con tutte le nostre forze,

consumando interamente le nostre energie

e tutte le risore dell’anima e del corpo

a servizio del tuo amore, e non ad altro scopo.

E amiamo il nostro prossimo come noi stessi,

attirando tutti al tuo amore

secondo che ci sia possibile,

godendo del bene degli altri come fosse nostro,

soffrendo con essi i loro mali

e non facendo offesa ad alcuno * Pat 5.

Il racconto del viaggio di Francesco in Siria riferito da fratello Celano ci mostra una messa in atto concreta di questa comunione con il nostro Padre dei cieli. Fermiamoci qualche istante sui tratti salienti di questo racconto.

L’amore di Dio

I vocaboli utilizzati da fratello Celano per descrivere il comportamento dell’eroe del suo racconto possono sembrare esuberanti: seguendo il cammino delle volontà di Dio; servitore del Dio Altissimo; ebbro di Spirito; bruciante d’amore per Dio; bruciando dals desiderio del martirio; il sublime desiderio del martirio; spande il grano buono della vita. Ma quando compariamo queste descrizioni con la parafrasi del Padre Nostro di Francesco, vediamo che si tratta della stessa linfa spirituale che scorre. Celano descrive la persona di Francesco con una precisione ed un’esattezza da far arrossire di invidia il più preciso dei biografi: Che noi ti amiamo con tutto il nostro cuore pensando sempre a te; con tutta la nostra anima, desiderandoti sempre… Per Francesco, amare Dio richiede un impegno totale di sé, un amore senza limite da parte di ogni uomo.

Il movimento verso l’altro

Che amiamo il nostro prossimo come noi stessi… ci dice Francesco nella sua parafrasi. Quello che è straordinario con Francesco è che, cosciente che noi siamo tutti figli di uno stesso Padre, lui si mette in movimento verso l’altro, al fine di renderlo prossimo: vicino a lui, certamente, come puo’ esserlo un fratello, ma soprattutto vicino a quell’unico Padre di cui siamo i figli.

Amare il prossimo come se stessi: attraversando il mare, parcorrendo la terra, Francesco abolisce le distanze. Fa in modo che il più lontano degli uomini diventi “un vicino”. Non si incontra il Sultano di Saraceni restando chiusi nella propria casa, ma si abbandona tutto per andare ad incontrarlo. Il racconto di Celano non smette di ricordarci questo movimento continuo verso l’altro e cio’ che lo motiva: bruciante d’amore per Dio, Francesco vuole sempre lanciarsi in grandi avventure; se ne va a percorrere la terra; lavora la terra con il vomere della sua parola e spande il buon grano della Vita ; prese la risoluzione di andare in Siria per predicare la fede cristiana; prende la strada del Marocco per predicare il Vangelo di Cristo; il desiderio è cosi’ potente che egli corre; senza paura, parte ad affrontare il Sultano dei Saraceni…

La preoccupazione di Francesco è di amare tutti i suoi fratelli della terra e di farli avvicinare al nostro Padre che è nei cieli: Che amiamo il nostro prossimo come noi stessi attirando tutti al tuo amore. E Francesco non compie questo movimento verso l’altro “con le armi di guerra in mano”. Non cerca di convertire “ad ogni costo”, con “ogni mezzo”. Contrariamente ai crociati del suo tempo, e anche ad altri “difensori di Dio” dei tempi moderni”, Francesco non utilizza le spade e le lance, i cavalli e i carri, gli scudi e le armature. Per Francesco, compiere la volontà di Dio nei riguardi di tutti i fratelli della terra, significa attirarli tutti all’amore di Dio condividendo le loro gioie, aiutandoli a sopportare le loro pene e senza far loro alcun male.

Accogliere l’altro

In questa narrazione del viaggio in Siria, possiamo domandarci perché Tommaso da Celano racconti l’arrivo dei nuovi discepoli nell’ordine dei frati minori: vengono numerosi uomini, degni e generosi… si presentano numerosi discepoli, nobili e letterati… per condividere la sua vita. Fratello Celano mancherebbe a tal punto di logica o di spirito di analisi per fare un errore di una tale mescolanza di generi? Che rapporto c’è tra l’arrivo di questi nuovi discepoli e il viaggio in Siria?

In questa evocazione, apparentemente scollegata dl contesto, fratello Celano riferisce alcune delle virtù di Francesco, in un contesto che egli conosce perfettamente per averlo lui stesso vissuto: … ma Dio, nella sua bontà, volle preoccuparsi di me e di molti altri. Il giovane postulante aveva dovuto essere affascinato dall’accoglienza che gli aveva riservato Francesco al momento del suo arrivo nell’ordine. Ed ha potuto errese testimone dello stesso senso dell’accoglienza per altri discepoli, il cui stato di vita iniziale (degni e generosi… nobii e letterati…) probabilmente simile al suo quando si era presentato, avrebbe potuto non piacere ad un amoroso della povertà e della semplicità come Francesco. Ma Francesco li riceve con onore e dignità, rendendo a ciascuno quanto gli è dovuto. Dotato di un discernimento eccezionale, tiene conto del valore e della posizione di ciascuno. In effetti, fratello celano ci presenta le virtù di Francesco in un contesto che conosce perfettamente, come per suggerire al lettore che sono queste stesse virtù che hanno dovuto prevalere in Francesco al momento dell’incontro con il Sultano. Cio’ che ci riferisce in maniera sicura fratello Tommaso, è che il Sultano riceve Francesco con molta cortesia. Si instaura un’accoglienza ed un muto ascolto tra persone di razza, cultura e religione differenti. Accoglienza ed ascolto: queste sono due virtù necessarie ad un operatore di pace, due virtù che testimoniano della costruzione di un mondo fraterno… Ma prima di questo, Francesco ed il suo compagno di viaggio conoscono la prova.

Arrestato dalle guardie: il servitore nella prova

Tutto cio’ che precede è molto bello e pure esemplare! Tutti noi vorremmo poter vivere ed essere attori di questo genere di situazioni. Noi saremmo allora degli artigiani attivi della pace nel mondo. Chi lo sa se forse saremmo anche conosciuti, riconosciuti e magari anche adulati nel mondo intero per aver copiuto tali opere? La gloria non ha forse molti amici? Tuttavia, ricordiamoci della quinta ammonizione di Francesco. Egli invita ogni uomo a non inorgoglirsi, ma a porre la propria fierezza nella croce del Signore. Allo stesso modo, il servitore di Cristo è chiamato a conformarsi al suo maestro anche nella prova. Questa prova è data a tutti i discepoli di Cristo: se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi (Gv 15 20). E nel caso di Francesco, questa configurazione fino alla prova è pure ricercata, desiderata più che ogni altra cosa: … bruciando dal desiderio del martirio; … il sublime desiderio del martirio non perde di ardore nel cuore di Francesco.

La preparazione della partenza verso la Siria e l’accoglienza dei nuovi discepoli sono due parti che si rispondono e preparano l’incontro con il Sultano.Nono stante le apparenze che potrebbero lasciarci pensare che l’incontro con il Sultano sia la parte più importante del racconto, è in effetti il momneto in cui Francesco è arrestato dalle guardie e quell’avvenimento a costituire la parte culminante del testo. Agli occhi di Francesco (e agli occhi della Chiesa), il martirio è la piena imitazione di Cristo, la partecipazione completa alla sua testimonianza ed alla sua opera di salvezza. Ora, in questo episodio, come ogni discepolo di Cristo, Francesco è umiliato dal mondo: è arrestato dalle guardie, coperdo ti ingiurie e di colpi, minacciato di morte e di supplizio… Qui, imita l’umiltà di Cristo e subisce gli stessi oltraggi. È la prefigurazione di un’altra grazia, di cui parla l’epilogo di Celano, e che sarà ricevere le stigmate: (il Signore) si riservava di accordargli il favore particolarissimo di un’altra grazia

La costruzione di un mondo fraterno ed evangelico implica la conversione del prossimo alla fede in Cristo?

Non abbiamo ancora cercato di definire cosa potesse essere “la costruzione di un mondo fraterno ed evangelico”. Risponderemo a questa domanda in modo più sviluppato più avanti nel capitolo * Nel commento all’articolo 14 della nostra Regola, al § intitolato: “L’acqua cambiata in vimo: costruzione di un mondo fraterno ed evangelico”. . Per il momento, approfittando del racconto del viaggio di Francesco in Siria, facciamoci una domanda: la costruzione di un mondo fraterno ed evangelico deve lasciarci considerare che questa costruzione passi attraverso la conversione dell’umanità intera alla fede in Cristo? Gesù stesso non ci invia forse in missione: Andate dunque e fate discepoli di tutti i popoli (Mt 28 19)? Tuttavia, quando si ascolta Francesco che insegna a frate Leone che cosa è perfetta letizia, (Fior 8), possiamo condividere lo stupore di frate Leone riguardo all’attività apostolica: O frate Leone, qund’anche il fratello Minore sapesse predicare cosi’ bene da convertire tutti i fedeli alla fede in Cristo, scrivi che non è là perfetta letizia. E San Paolo aggiunge: E se anche avessi il dono di profezia, intendessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede da trasportare i monti, ma non ho amore, non sono nulla. (1Co 13 2).

La problematica posta in queta maniera lascia intravvedere la risposta alla domanda posta: la costruzione di un mondo fraterno ed evangeliso non deve essere sospesa e non puo’ essrere sospesa alla conversione del mondo intero alla fede in Cristo Salvatore e Redentore. Questo sarebbe un non senso, una pericolosa devianza che farebbe arretrare il regno di Dio sulla terra. Immaginiamo un istante la regressione che il cristiano si imporrebbe ed imporrrebbe al mondo e a Do ragionndo cosi’: “io non saro’ fraterno e caritatevole col mio prossimo che nella sola misura in cui questo si converta alla mia fede”! Questo sarebbe idolatrare la propria fede e le proprie convinzioni al posto di credere in Dio Trinità. In un certo senso, questo sarebbe adottare il comportamento dei farisei che rimproverano a Gesù di guarirre i malati in giorno di sabato o di fare una buona accoglienza ai peccatori.

La breve storia che ci riferisce Tommaso da Celano sul viaggio di Francesco in Siria ci dà un esempio * Un esempio “esemplare”. Non è detto molto bene, ma è talmente vero! di quella che è la costruzione di un mondo fraterno ed evangelico. Vediamo Francesco che va incontro all’altro, e ad un altro cosi’ diverso da lui! E, in questi incontri, Francesco rende testimonianza di un’accoglienza dell’altro basata sul rispetto. Non si sente mai Francesco criticare il Sultano, né la sua religione, né in quel momento, né al suo ritorno dalla Siria. Questi atteggiamenti di Francesco sono confermati nella redazione della Prima Regola (1 Reg 5-7): I fratelli che vanno (dai Saraceni e dagli altri infedeli) possono considerare il loro ruolo spirituale in due maniere: o, senza fare né processi né liti, essere sottomessi ad ogni creatura umana a causa di Dio, e confessare semplicemente di essere cristiani; oppure, se vedono che tale è la volontà di Dio, annunciare la Parola di Dio…

Che anche noi sappiamo vivere quest’incontro e quest’accoglienza là dove il nostro destino ci conduce: nella nostra famiglia, nel nostro lavoro, nella nostra città, nel nostro paese, e in tutto l’universo.

AFFINCHE’ VENGA IL REGNO DI DIO

Dedichiamoci ora all’approfondimento di quattro articoli della nostra regola. Lo studio di questi articoli è stato raggruppato in uno stesso capitolo perché le nozioni che essi sviluppano sono vicine le une alle altre per numerosi aspetti. In tal modo, lo studio di uno permette di arricchire la comprensione degli altri.

Articolo 10.

In comunione con l’obbedienza redentrice di Gesù, che mise la sua volontà in quella del Padre, rempiranno con fedeltà gli impegni propri alla loro condizione personale, nelle diverse situazioni della vita * Vaticano II, const. sulla Chiesa 67; Decreto sull’apostolato dei laici 4. * Vaticano II,const. sulla Chiesa 41.a; seguiranno anche il Cristo povero e crcifisso, rendendogli testimonianza, perfino nelle difficoltà e nelle persecuzioni * Vaticano II, const. sulla Chiesa 42 B..

Per aiutarci ad approfondire questo articolo della nostra regola, cominceremo con il trasportarci verso l’anno 600 avanti Cristo, sotto il regno di Giuda, Giosia e Gioachim, fino alla deportazione da Gerusalemme in Babilonia. Si tratta di quel tragico periodo in cui fu preparata e portata a termine la rovina del regno di Giuda. Il profeta Geremia ricevette come missione di annunciare la Parola del Signore nel corso di tutta quest’epoca.

Cosi’ parla il Signore

Geremia è il profeta scelto da Dio fin dal seno di sua madre per annunciare la Sua Parola: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Jr 1 5). Le profezie che annuncia non sono le più gradevoli a udirsi per i suoi contemporanei. Comincerà innanzitutto con il sottolineare l’apostasia di Israele. Quando diciamo che «egli comincerà», è in veste di profeta, ossia, cio’ che dirà, sarà pronunciato nel nome del Signore. Tra l’altro ogni suo intervento inizia con l’espressione: «Cosi’ parla il Signore».

«Così dice il Signore: Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento… Israele era cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto… Così dice il Signore: Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri, per allontanarsi da me?

Essi seguirono ciò ch’è vano, diventarono loro stessi vanità… Perchè il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua… Poichè già da tempo hai infranto il tuo giogo, hai spezzato i tuoi legami e hai detto: Non ti servirò! Infatti sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verde ti sei prostituita. Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (Jr 2 2, poi 2 3, poi 2 5, poi 2 13, poi 2 20-21).

Geremia attraversa, quindi, la drammatica storia del popolo di Israele, deportato, infine, a Babilonia, pregando, minacciando, predicendo la rovina, avvertendo in vano i re incapaci che si succedono sul trono di David. Viene accusato di disfattismo dai militari, perseguitato, incarcerato. Il dramma di questa vita non risiede solo negli avvenimenti a cui Geremia è mescolato, ma si trova anche nel profeta stesso. Egli ha un’anima tenera, fatta per amare, ed è inviato per «per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere» (Jr 1 10).

Deve predire soprattutto la disgrazia (Jr 20 8). È desideroso di pace e deve sempre lottare, contro i suoi, contro i re, i falsi profeti, tutto il popolo. Agli occhi dei suoi contemporanei, egli è «oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese» (Jr 15 10). È combattuto nel suo cuore a causa della missione a cui non puo’ sottrarsi (Jr 20 9). I suoi dialoghi interiori con Dio sono disseminati di grida di dolore: Perché il mio dolore è senza fine? (Jr 15 18). E il passaggio lacerante che annuncia Giobbe: Maledetto il giorno in cui sono nato (Jr 20 14). Ma questa sofferenza ha depurato la sua anima e l’ha aperta alla comunione con Dio.

Quello che è straordinario, in Geremia, è la fonte a cui attinge per rivolgersi non soltanto ai suoi contemporanei, ma anche a noi stessi oggi. Infatti non dice: «Cosi’ dicono i sondaggi», cosa che gli avrebbe forse permesso di venire considerato dai suoi contemporanei, o ancora «cosi’ vuole la maggioranza», o «cosi’ parla il mio sindacato», oppure «cosi’ parla il mio partito politico», o ancora «si deve applicare la legge del più forte», «è vietato vietare» e «fate quindi tutto quello che volete», ma dice e proclama, contro vento e contro corrente: «Cosi’ dice il Signore». E’ la parola di Dio che lo costruisce, lo forma, lo conduce, nonostante le sofferenze e le persecuzioni. Mettendo i valori spirituali in primo piano, svelando i rapporti intimi che l’anima deve avere con Dio, Geremia prepara la Nuova Alleanza cristiana. La sua vita di abnegazione e di sofferenze al servizio di Dio fa di Geremia una figura di Cristo.

Mettere la propria volontà in quella del Padre

Rileggiamo ora l’articolo 10 della nostra regola. Non ci mente, non ci racconta una storia romantica uscita dall’immaginazione e solamente capace di restarvi, senza alcun rapporto con la vita reale. Qui si parla di obbedienza, di comunione con l’obbedienza redentrice di Gesù, di mettere la propria volontà in quella del Padre, di compiere con fedeltà i propri impegni. Ossia, in breve, si tratta di seguire il Verbo incarnato, la Parola del Signore. Francesco, nella sua lettera a tutto l’Ordine, ci esorta allo stesso modo e ci precisa anche il «mezzo» con cui bisogna ricevere la parola di Dio e che cosa bisogna farne: Tendete l’orecchio del vostro cuore e obbedite alla voce del Figlio di Dio (3 Let 6). Francesco insiste anche subito dopo, siccome non si tratta soltanto di tendere l’orecchio alla Parola, ma di farla propria portandola a compimento: Custodite con tutto il cuore i suoi comandi e compite perfettamente i suoi consigli (3 Let 7). In ogni caso, questi comandi e questi consigli da vivere nelle diverse situazioni della vita, devono essere vissuti in comunione con Gesù, poiché, se vi ha inviati nel mondo intero, è perché, con la parola e con l’azione, voi rendiate testimonianza alla sua parola e facciate sapere a tutti che non esiste nessuno più potente di Lui (3 Let 9). Noi sappiamo quello che ci aspetta se agiamo in tal modo, poiché il servitore (io oggi) non è superiore al suo padrone (Cristo povero e crocefisso) (Jn 15 20): perfino nelle difficoltà e nelle persecuzioni, ci predice la nostra regola. Vuole forse dire che dobbiamo ricercare le difficoltà e le persecuzioni? No, non c’è alcun bisogno di adrarle a cercare. Le difficoltà e le persecuzioni vengono da noi senza bisogno di corrervi dietro. Ma bisogna ripetere che colui che vuole seguire Cristo deve: 1) rinunciare a se stesso (è già una «bella» difficoltà), 2) prendere la propria croce cgni giorno (significa avere uno spirito di sacrificio capace di soffrire per amore di Dio e dei suoi figli, gli uomini), 3) e infine, seguire Cristo, il Salvatore. Francesco ci incoraggia: Perseverate nella disciplina e nella santa obbedienza: osservate con fedeltà e generosità quanto gli avete promesso (3 Let 10).

Articolo 14.

Con tutti gli uomini di buona volontà, essi sono chiamati a COSTRUIRE UN MONDO PIU’ FRATERNO E PIU’ EVANGELICO, affinché avvenga il Regno di Dio. Coscienti che «chiunque segue Cristo, uomo perfetto, diventa egli stesso più uomo», eserciteranno con competenza le loro proprie responsabilità in uno spirito cristiano di servizio. * Vaticano II, cost. sulla Chiesa 41; Cost. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo 93.

Con tutti gli uomini di buona volontà

Per definire la buona volontà, bisogna innanzitutto parlare di libertà. La libertà è il potere di agire o di non agire, di fare questo o quello, di compiere quindi di per se stesso delle azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé stesso. La libertà è nell’uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. Sapendo che Dio è verità e che Dio solo è buono, noi possiamo affermare che la libertà raggiunge la sua perfezione quando è consacrata a Dio, nostra beatitudine * CEC 1731.

Santa Maria Maddalena, peccatrice dai sette demoni, aveva scelto la schiavitu’ del peccato. Ella si prostituiva. Toccata dalla voce del Buon Pastore, la pecorella smarrita si converti’ e si mise alla ricerca del suo Dio. Ha la volontà di fare questa ricerca. E’ sempre la volontà che da all’atto il suo valore. Per la festa di santa Maria Maddalena, la liturgia propone delle letture che parlano di questa ricerca del bene, ossia di questa buona volontà deliberata di volgere il proprio cuore verso Dio e di ordinare in Lui le proprie azioni quotidiane. Dobbiamo notare che questa ricerca non ha risultati senza uno sforzo: «Tutta la notte, ho cercato l’amato del mio cuore. Stesa sul mio letto, l’ho cercato ma non l’ho trovato! Mi alzero’ e faro’ il giro della città, per le strade e per le piazze. Voglio cercare l’amato del mio cuore […] Trovai l’amato del mio cuore. Lo strinsi fortemente e non lo lascero’. * Ct 3 1-4a (lettura della festa di Santa Maria Maddalena).» Quando uno ha trovato Cristo, Colui che è ogni bene, senza il quale non vi è alcun bene, non soltanto la visione del mondo cambia, ma il mondo stesso è trasformato: «Poiché Cristo è morto per tutti, affinché i viventi non abbiano più la vita centrata su loro stessi, ma su di lui, che è morto e rsuscitato per loro. Ormai non conosciamo più nessuno secondo la maniera umana…Se qualcuno è in Gesù Cristo, è una creatura nuova. Il mondo antico se ne è andato, un mondo nuovo è già nato * 2 Co 5 14-17 (lettura della festa di Santa Maria Maddalena).». Tuttavia, la costruzione di questo mondo nuovo non si puo’ fare senza i miei fratelli. Si deve costruire con tutti gli uomini di buona volontà, ossia, con tutti coloro che hanno sete di lui, con tutti coloro che lo contemplano, con tutti coloro che lo benedicono, con tutti coloro che uniscono a Lui la loro anima * D’après le psaume 62 (salmo della festa di Santa Maria Maddalena).. E’ quindi a tutti noi, uomini chiamati alla Buona Volontà, che Maria Maddalena, di buon mattino, viene ad annunciare: «Ho visto il Signore ed ecco quello che mi ha detto. * Jn 20 18 (Vangelo della festa di Santa Maria Maddalena).»

Restate dove siete

Questa ingiunzione di Francesco: «restate dove siete», potrà sembrare contradditoria con questo passaggio del Cantico dei Cantici appena citato: Mi alzero’ e faro’ il giro della città, per le strade e per le piazze. Ma non si devono mettere in opposizione questi testi perché il Cantico parla, aiutandosi per immagini, dello sforzo necessario per progredire nella virtù, nella conoscenza del bene, e nell’ascesi che rendono l’uomo libero della vera libertà. Il «restate dove siete», quanto a lui, ci dà il luogo dove lavorare, nella vigna del Signore. Ricordiamo a questo proposito la frase del nostro sovrano Pontefice Pio XII: «I fedeli, e più precisamente i laici, si trovano sulla linea più avanzata della via della Chiesa» * Cf . Ibid.

San Francesco ha creato l’ordine dei penitenti nel 1221. Si trattava di uomini e di donne che, dopo aver a lungo nutrito in loro l’appetito di cibi terrestri, avevano trovato l’occasione di una nuova nascita nella dottrina di Francesco, ma senza arrivare al punto di rinunciare ad assumere le loro responsabilità riguardo al mondo e a prendere la via della povertà assoluta. A noi, suoi fratelli dell’Ordine Francescano Secolare, Francesco dice: "Non abbiate fretta di abbandonare le vostre case. Restate dove siete e vi diro’ quello che dovete fare per la salvezza delle vostre anime" (Fior 16 9). Notiamo per inciso che Francesco non ci dice: "Vi diro’ quello che dovete fare per raddrizzare il mondo." Ma Francesco sa che con la conversione di tutti e di ciascuno comincia la sola vera riforma della società, la sola vera costruzione di un mondo più fraterno e più evangelico.

L’acqua trasformata in vino: costruzione di un mondo fraterno ed evangelico

Faremo solo un breve commento riguardo questo appello formulato dall’articolo 14 della nostra Regola, «costruire un mondo più fraterno e più evangelico» nella misura in cui l’essenziale della seconda parte di questo capitolo VII tratta di questa questione. Aggiungiamo semplicemente due cose:

Costruire un mondo più fraterno e più evangelico è, secondo l’esempio di Cristo, cambiare l’acqua in vino nella nostra vita quotidiana. Prima che Gesù fosse presente alle Nozze di Cana, il matrimonio esisteva già. Prova ne è il fatto che Gesù e sua madre sono stati giustamente invitati a nozze. Ma la presenza di Cristo modifica l’andamento abituale. D’abitudine, l’acqua non viene trasformata in vino; inoltre, si comincia sempre col servire il vino migliore e, quando gli invitati hanno bevuto abbastanza, si fa allora servire del vino di qualità meno buona. Gesù cambia l’ordine delle cose: cambia l’acqua in vino, ossia, cio’ che è semplicemente dissetante (l’acqua) diventa una bevanda degna di essere servita agli invitati a nozze (il vino). Non è il solo cambiamento che compie. Se negli usi umani si comincia con l’inebriare le persone con del vino buono, per ingannarle in seguito servendo loro del vino meno buono, Gesù serve il migliore alla fine. La sua presenza al matrimonio significa che egli non rigetta il mondo, ma che lo trasforma agendo in direzione della meta finale: le nozze celesti. Noi siamo chiamati a fare la stessa cosa, poiché costruire un mondo più fraterno ed evangelico significa cambiare l’acqua in vino. Ci sembra una cosa insormontabile il poter realizzare questa trasformazione? Ci sembra forse inefficace? Il nostro sovrano Pontefice Giovanni Paolo II, nella sua lettera enciclica «Sollicitudo Rei Socialis» (La questione sociale) ci incoraggia in questa direzione: Persino nell’imperfezione e nel provvisorio, non sarà né perduta né vana alcuna cosa che si puo’ e che si deve compiere con lo sforzo solidare di tutti, attraverso la grazia divina, ad un certo momento della storia, per rendere «più umana» la vita degli uomini. Il Concilio Vaticano II insegna questo in un passaggio luminoso della costituzione Gaudium et spes: i «valori della dignità umana, di comunione fraterna e di libertà, tutti questi frutti eccellenti della nostra natura e del nostro operato, che noi avremo propagato sulla terra secondo il comandamento del Signore e nel suo Spirito, li ritroveremo più tardi, ma purificati da ogni zozzura, illuminati, trasfigurati, quando il Cristo consegnerà a suo Padre“un regno eterno ed universale” [...]. In maniera misteriosa, il Regno è già presente su questa terra» * Gaudium et spes, n. 39..

Affiché avvenga il Regno di Dio

La Chiesa sa che nessuna realizzazione temporale si identifica con il Regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni riflettono e, in un certo senso, anticipano la gloria del regno che noi attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma quest’attesa non potrà mai giustificare il fatto che ci si disinteressi degli uomini nella loro situazione personale concreta e nella loro vita sociale, nazionale ed internazionale, perché l’una –soprattutto ora- condiziona l’altra. * Giovanni Paolo II, Enciclica Sollicitudo Rei Socialis, § 48, Edizioni Pierre TEQUI 1987.

D’altra parte, Dio si è proprio fatto uomo! Il Nuovo Testamento trova il suo contesto in un clima sociale determinato con, come sfondo, una botteguccia di falegname e, come attori, dei piccoli priprietari, dei fattori, dei mercanti liberi di comprare e di vendere, dei soldati, dei magistrati e dei funzionari. È stato necessario un decreto ufficiale perché Giuseppe e Maria si recassero nel posto dove Cristo doveva venire al mondo; ma, notiamo per inciso, che non c’è nel Vangelo una denuncia del potere imperiale in quanto tale. Nello stesso ordine di idee, quando Gesù piange sulla sorte del giovane ricco, non é perché il giovane é ricco, ma perché non ha saputo accogliere in sé stesso la grazia della vocazione alla povertà. Allo stesso modo, nelle parabole, il proprietario della vigna possiede il diritto di determinare egli stesso il montante del giusto salario che pagherà ai suoi operai, senza per questo dover sollecitare presso un qualche organismo il permesso di agire in tal modo. Quando Paolo scrive a Filemone, chiedendogli di accogliere con la carità di Cristo uno schiavo fuggitivo, non si abbandona ad una denuncia della schiavitù in quanto tale.

Il Nuovo Testamento non comporta delle consegne precise riguardo ai problemi sociali. E tra l’altro, nemmeno la nostra Regola di vita. Il Vangelo non è un manuale di morale sociale: non fa alcuna menzione di economia politica, di democrazia, di proletariato, di proprietà dello Stato, né di ospedali. Ma è animato da un dinamismo rivoluzionario autentico, da una potenza capace di trasformare gli uomini e le società, di dare il volto ad un mondo nuovo, infine conforme alla giustizua di Dio: con tutti gli uomini di buona volontà, i fratelli secolari di San Francesco sono chiamati a costruire un mondo più fraterno e più evangelico, affinché avvenga il regno di Dio.

Gesù ha detto tutto quello che aveva da dire in materia di economia politica quando ha posto il principio che il Padre nostro che è nei Cieli sa di che cosa abbiamo bisogno in materia di cibo e di vestiti. Perché tutto un programma di riforme si trova implicato dal comandamento: «Cerca prima il regno dei Cieli e la sua giustizia e tutto il resto ti verrà dato in aggiunta» (Mt 6 33). Non dobbiamo essere impazienti. E non dobbiamo falsificare la Parola del Signore come segue: "Costruiamo innanzitutto un’economia conveniente, ed il regno di utopia proclamato dai cristiani seguirà automaticamente". * Il contenuto di questo paragrafo è stato composto da estratti ritoccati delle Edizioni francescane 1964, Dio mi ha dato dei fratelli..., Sidney F. WICKS, da p. 144 a 150 (Rivelazione e rivoluzione) e dall’opera di riflessione e di meditazione stampata da OCEP 1975, Sociologia divino umana di Cristo e del Vangelo attraverso San Giovanni – Cristo al lavoro, Fratello Raymond MOISDON. ofm. Per numerosi ambienti non cristiani, il cristianesimo sarebbe allora un’«illusione paralizzante», destinata al miglioramento delle condizioni umane. Carlo Marx pretendeva che fosse «l’oppio del popolo». La proclamazione del Vangelo non è oppio ma, anche se tocca l’umano, è dinamite spirituale che esplode attraverso l’alto e per l’alto.

Gesù Cristo muore sulla croce dichiarando: «Ho sete.» Come alla Samaritana, dichiara agli uomini la sua sete di anime che cercano la pienezza. Come alla Samaritana, rivela all’umanità stessa la sua «propria sete» di pienezza e rivela anche la sorgente: «LUI STESSO». Cosi’, non esita a chiamarci: «Come mio Padre ha inviato me, cosi’ Io mando voi.» Io vi invio a ricreare personalmente l’amicizia tra ciascuno e Dio.

Segui Cristo e diventerai più uomo

Per diventare più uomo, bisogna seguire Cristo, ci precisa la nostra regola. Non è forse sorprendente che ci sia fatta l’esortazione a seguire Dio fatto uomo per diventare noi stessi degli uomini degni di essere tali? Altrimenti detto, se tu vuoi diventare più uomo, segui le azioni di Dio fatto uomo. Ma quali sono queste azioni? E, prima di tutto, su che cosa si basano? * Le righe che seguono sono estratte da Desclée de Brouwer 1997, Quando l’Amore si fa uomo, Stan Rougier, da p. 43 a 47.

Dio è amore. Nel Vangelo, a poco a poco, Gesù rivela il suo segreto: viene da un mondo in cui l’amore è la sola legge, il solo desiderio, la sola vita. È il «Prediletto» del Padre, il cui amore è inesauribile, senza limiti. L’amore non è un sospiro, un sentimento leggero o passeggero. L’amore è l’Infinito, l’Assoluto; è l’inizio ed il termine di tutto. In principio era l’Amore. L’Amore è l’unione del Padre eterno e di suo Figlio eterno nell’abbaglio dello Spirito. Questa rivelazione decisiva si farà nella più grande discrezione. Gesù non dirà: «Io sono la seconda persona della Trinità.» Lascia ai suoi discepoli il compito di trarre le conseguenze delle sue parole, della sua resurrezione, dell’invio dello Spirito Santo dopo la sua «partenza».

Per entrare nel Regno dove ci ameremo tutti, dobbiamo scacciare dal nostro cuore cio’ che ferisce l’amore, cio’ che uccide l’essere amato. «Ama e vivrai», «Ama e farai vivere». Gesù non si allontana mai da questi due pensieri che lo abitano. Ma dirà e vivrà cio’ che significa il verbo amare.

Per Gesù, amare non è togliere ad uno ad uno i petali di una margherita ripetendo: «Ti amo un po’, tanto, appassionatamente, alla follia…» Per Gesù, amare si traduce dalla qualità dello sguardo. Sotto il semino più minuscolo, riconosce l’albero dove un giorno troveranno rifugio gli uccelli. «Se tu conoscessi la bellezza di una sola anima umana, io non ho alcun dubbio che per la sua salvezza saresti pronto a subire cento volte la morte. Niente è comparabile a questa bellezza» (Caterina da Siena).

Per Gesù, amare consiste nel condividere il proprio pane con l’affamato, i propri abiti con i mendicanti, la propria casa con i senza tetto, la sua reputazione con colui che è disonorato, il suo lavoro con il disoccupato. Amare è passare un pomeriggio con un malato o con un uomo in prigione. Per Gesù, amare è difendere una donna che la legge ha condannato. È proporre la sua amicizia ad un ispettore delle tasse, disonesto e detestato, a rischio di perdere il suo credito presso un gran numero di persone. Per Gesù, amare è accogliere, nel bel mezzo di un banchetto ufficiale, una donna di mal costume i cui gesti compromettono gravemente la sua reputazione di maestro spirituale. È abbracciare con meraviglia dei bambini rumorosi e stancanti. Per Gesù, amare è frequentare tanto l’occupante nemico che il resistente, l’intellettuale che il manovale, il maldicente e il benpensante. Il più orribile sarà sempre il più amato, non perché è orribile, ma perché cessi di esserlo. Allo stesso modo in cui il bambino più malato sarà sempre il più curato, affinché guarisca. Ma non confondiamoci. Gesù non ha alcuna complicità con le sottrazioni di fondi, né con la libertà sessuale, né con il potere alienante di Roma. Mentre lo stato di peccato lo disgusta, il minimo cambiamento da parte del peccatore provoca la sua più grande gioia.

Per Gesù, amare è interrompere un viaggio per un ferito sconosciuto, portarlo all’ospedale e dire: «Inviatemi il conto delle spese». Per Gesù, amare è accogliere un figlio che è scappato e che è troppo festaiolo, con delle lacrime di gioia, senza una parola di rimprovero. È affidare una missione di apostolo ad un samaritano la cui vita è tuttaltro che esemplare. Per Gesù, amare è perdonare ai suoi carnefici… non venti anni più tardi, ma nello stesso momento, sotto tortura: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!» Per Gesù, amare è essere, per i propri simili, cio’ che il sole e l’acqua sono per le piante. La luce e la pioggia non impongono niente alla pianta. Le permettono solamente di esistere, «secondo la sua specie».

Dove ha attinto, Gesù, il segreto di un tale amore? Com’é quindi, quest’uomo, capace di amare coloro che nessuno osa avvicinare? La risposta a queste domande ci é data da Gesù stesso: «Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste. […] perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5 48 e 5 45).

In uno spirito cristiano di servizio

«Dov’è tuo fratello Abele?» (Gn 4 9), chiede il Signore a ciascuno di noi. E’ ormai facile immaginare che la buona risposta a questa domanda son sia veramente quella formulata da Caino: «Non lo so. Sono forse io il guardiano di mio fratello?» Esercitare con competenza le proprie responsabilità nella vita professionale, sociale, politica, familiare… è rispondere alla domanda del Signore con delle parole e delle azioni che tengono in considerazione il beneficiario finale del servizio reso: mio fratello, figlio dello stesso Padre. Nel paragrafo precedente, abbiamo scoperto numerosi modi di coniugare il verbo amare. Riportato alle proprie responsabilità, significa voler seguire Cristo: «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo» (Jn 12 26). Gesù non fa in questo caso cio’ che potrebbe venir scambiato per un semplice procedimento letterario, ma ci dà le «istruzioni d’uso» del servizio cristiano che rovescia la gerarchia dei valori ammessi tradizionalmente. In effetti, esercitare con competenza le proprie responsabilità, puo’ facilmente suscitare, per la persona che ha la responsabilità di essere il datore di lavoro, o il dirigente, o il capo di servizio, o il caposquadra, o il gregario aiutato dal manovale (perché siamo tutti «responsabili» di qualcun’altro), un sentimento di superiorità che lo porta a considerare che la vera relazione si coniughi cosi’: «io comando, tu obbedisci». Abbiamo potuto leggere nelle righe precedenti che essere fratello è convertire il nostro istinto di dominazione in volontà di servizio. Certamente, questa volontà di servizio non sottrae colui che è incaricato di una responsabilità a delle decisioni inderogabili che deve prendere ed assumere, ma deve fare cio’ con uno spirito cristiano di servizio. «Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22 27). Illuminati da cio’ che è stato detto in precedenza, non dobbiamo esitare a tradurre: Ebbene, io sono in mezzo a voi come colui che ama!

Articolo 15.

Attraverso la testimonianza della loro stessa vita e delle iniziative coraggiose, tanto individuali quanto comunitarie, si rendano presenti per promuovere la giustizia, in particolare nel campo della vita pubblica, e non esitino ad impegnarsi, per questo, in delle opzioni concrete e coerenti con la loro fede. * Vaticano II, decreto sull’apostolato dei laici 14.

Attraverso la testimonianza della propria vita

Non è soprendente che l’articolo 15 della nostra regola distingua la testimonianza della propria vita e le coraggiose iniziative, come se le seconde non fossero rappresentative del primo! Se viene fatta questa distinzione, non è forse per sottolineare il fatto che c’è, nella testimonianza della propria vita, qualche cosa che ingloba e che supera persino, le opere che possono essere compiute nel tempo che ci è dato per vivere? Nelle prime pagine di questo capitolo abbiamo letto un paragrafo che esplicita perfettamente questa sfumatura: Tutto quello che dite, tutto quello che fate sia sempre nel nome del Signore Gesù Cristo, offrendo attraverso di Lui la vostra azione di grazie a Dio Padre. La vocazione primaria e fondamentale che il Padre offre in Gesù Cristo per l’intercessione dello Spirito Santo ad ogni laico è la vocazione alla santità, ossia la perfezione della carità. Il santo è la testimonianza più eclatante della dignità conferita al discepolo di Cristo.

Allora si deve forse testimoniare istigando delle rivoluzioni? Si deve fare in modo di prendere il potere temporale per pervenire a installare (e ad imporre) cio’ che è buono e giusto?

Il nuovo Testamento è interamente centrato sulla Rivelazione. Non ci insegna nulla per quanto riguarda la rivoluzione. Quando Cristo invia lo Spirito Santo alla Chiesa appena nata, non è in vista di aprirle una via di accesso al potere. Ma la venuta di un santo capace di ridare un senso alla vita degli uomini vale più di cento concordati, ancora che i concordati siano cose necessarie. Ed il segreto della potenza esercitata dallo Spirito, è che questi opera attraverso una trasformazione lenta e non con una riforma brutale. Questa trasformazione è frutto della grazia, mentre le riforme brutali sono comparabili al fatto di innestare un tralcio nuovo su una vigna senza linfa. Quindi, non è attraverso la rivolta contro coloro che governano che le nazioni si rendono grandi e libere, ma è atraverso la condotta santa dei cittadini che si ottiene l’aiuto del Signore. Perché è questo lo statuto del regno di Cristo: niente rivolte, perché non salvano; ma la santificazione dell’autorità, impregnandola della nostra santità.

A noi di rispondere alla chiamata del Signore di andare a lavorare nella sua vigna. A noi di essere santi. Più personalmente, a me, oggi e fino alla mia morte, di essere un santo.

Attraverso delle coraggiose iniziative

La Chiesa trova il suo dinamismo profondo nella potenza dei doni che le accorda lo Spirito Santo. Nessuna legislazione, per quanto democratica, puo’ apportare qualcosa alla Chiesa in materia di santità. Come la Gerusalemme celeste nella visione di San Giovanni, la Chiesa discende dal cielo. È un dono di Dio. È il corpo di Cristo. Allora veramente, la creatura sparisce nel Creatore, è il Creatore che opera ed Egli è infinito.

Noi siamo esortati a testimoniare della nostra propria vita (di santità), innestati cosi’ come siamo, attraverso l’alto e per l’alto, ma anche a testimoniare attraverso delle iniziative coraggiose. Ma perché la promozione della giustizia reclama del coraggio?

È importante ricordare l’etimologia della parola coraggio per aiutarci a capire di che cosa si tratta. La parola coraggio è un derivato antico di cuore. Il coraggio è questa fermezza del cuore, questa forza d’animo che permette di sfidare il pericolo, che fa sopportare la sofferenza ed i rovesci di fortuna con costanza. Questo articolo 15 della nostra regola, direttamente estratto dal decreto sull’apostolato dei laici (Vaticano II), significa che volere rendersi presenti per promuovere la giustizia, particolarmente nel dominio della vita pubblica, reclama del coraggio. I fatti di attualità sono purtoppo molto eloquenti sul non rispetto della virtù morale chiamata giustizia. Tutti richiamano giustizia, ciascuno per il proprio diritto, dimenticando sovente che la giustizia è il rispetto delle regole del dovere. Prendere delle iniziative per promuovere la giustizia significa «anticipare i problemi». Il Signore stesso ci avvisa riguardo a quello che ci aspetta: «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Jn 15 18-21).

Promuovere la giustizia

Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l’amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre (Lc 11 42).Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio (Mt 9 13), poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti (Os 6 6).

Dio non respinge quindi la giustizia umana, che potremmo tradurre con il rispetto delle regole del dovere: «queste cose bisognava curare». Queste «piccole regole» sono anche molto importanti perché, grazie alla giustizia dei maestri, i servitori e gli aiutanti, cosi’, si rendono giusti. Nelle «piccole cose» quotidiane, ci viene, cosi’ dato da scegliere tra «essere figlio del Padre» o «essere figlio del diavolo», «edificatore» o «persona che fa cadere» i suoi fratelli. Ma il Signore insiste sul fatto che non si deve abbandonare il resto. Potremmo tradurre «il resto» con la promozione della giustizia, particolarmente nel dominio della vita pubblica a cui ci invita la nostra regola, sapendo che questo resto deve essere impregnato di misericordia: «è la misericordia che io desidero e non i sacrifici.»

Il nostro sovrano Pontefice Giovanni Paolo II, nel suo messaggio del primo gennaio 2002 per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, sintetizza in maniera luminosa questa misericordia che deve necessariamente accompagnare la giustizia: non c’è pace senza giustizia; non c’é giustizia senza perdono. Riportiamo qui, in guisa di commentario su questo concetto di promozione della giustizia, qualche riga di questo messaggio, presentato sotto forma di testimonianza commovente.

La pace, opera di giustizia e di amore: Quello che è recentemente successo * La giornata mondiale della Pace del 1° gennaio 2002 è stata celebrata sullo sfondo degli avvenimenti drammatici dell’11 settembre 2001. Quel giorno fu commesso un crimine di estrema gravità: nello spazio di qualche minuto, migliaia di persone innocenti, di deverse provenienze etniche, sono state orribilmente massacrate (prime righe del messaggio pontificale).,… mi ha spinto a riprendere una riflessione che sgorga sovente dal più profondo del mio cuore al ricordo degli avvenimenti storici che hanno marcato la mia vita, specialmente nel corso degli anni della mia giovinezza.

Le sofferenze indicibili dei popoli e degli individui, e tra di loro molti miei amici e persone che conoscevo, causate dai totalitarismi nazista e comunista, hanno sempre suscitato in me delle interrogazioni ed hanno stimolato la mia preghiera. Molte volte mi sono attardato a riflettere su questa questione: qual’è la strada che conduce al pieno ristabilimento dell’ordine morale e sociale che è violato in maniera cosi’ barbara? La convinzione a cui sono arrivato riflettendo e riferendomi alla rivelazione biblica è che non si ristabilisce pienamente l’ordine infranto se non armonizzando tra loro la giustizia ed il perdono. Le colonne della vera pace sono la giustizia e questa forma particolare dell’amore che è il perdono.

Ma come, nelle circostanze attuali, parlare di giustizia, e allo stesso tempo di perdono come fonti e condizioni della pace? La mia risposta è questa: si puo’ e si deve parlarne, malgrado le difficoltà che comporta questo soggetto, perché, tra l’altro, abbiamo tendenza a pensare alla giustizia ed al perdono in termini antitetici. Ma il perdono si oppone al rancore ed alla vendetta, e non alla giustizia. La vera pace è, in realtà, «opera della giustizia» (Is 32 17). Come affermato dal Concilio Vaticano II, la pace è «il frutto di un ordine che è stato impiantato nella società umana dal suo divino Fondatore, e che deve essere realizzato da degli uomini che aspirano incessantemente ad una giustizia più perfetta» (Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 78). Da circa più di quindici secoli, nella Chiesa cattolica, risuona l’insegnamento di Agostino di Ippona, che ci ricorda che la pace che bisogna realizzare con la cooperazione di tutti consiste nella tranquillitas ordinis, la tranquillità dell’ordine (cf. De Civitate Dei, 19, 13).

La vera pace è quindi frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che veglia sul pieno rispetto dei diritti e dei doveri, e sulla ripartizione equitabile dei profitti e delle responsabilità. Ma siccome la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta ai limiti e agli egoismi delle persone e dei gruppi, deve esercitarsi e, in un certo senso, essere completata dal perdono che guarisce le ferite e che ristabilisce in profondità i rapporti umani perturbati.

Questo vale tanto per le tensioni che riguardano gli individui quanto per quelle che hanno una portata più generale e anche internazionale. Il perdono non si oppone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle esigenze legittime di riparazione dell’ordine leso. Il perdono punta piuttosto a quella pienezza della giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine e che è ben di più di una cessazione temporanea delle ostilità: è la guarigione in profondità delle ferite che insanguinano gli spiriti. Per questa guarigione, la giustizia ed il perdono sono entrambi essenziali.

Impegnarsi con delle opzioni coerenti con la propria fede

Niente rivoluzione; niente rivolta, dicevamo precedentemente. Ma delle iniziative coraggiose. In un mondo in perpetuo cambiamento, le disposizioni adottate un giorno per la promozione della giustizia possono rivelarsi inadatte il giorno dopo per il solo fatto che i temi evolvono e che allo stesso tempo i modi di vita si modificano profondamente. E’ sovente necessario inventare, o più semplicemente re-inventare dei nuovi procedimenti, suscitare delle nuove misure, firmare dei nuovi concordati. Ma attenzione ai pericoli dell’immersione nel mondo! Per evitarne gli scogli, prendiamo esempio su Francesco. Non è per nulla estraneo alle preoccupazioni del suo tempo. Anzi, assume e fa sue queste preoccupazioni * Il seguito di questo § è composto da estratti da: Desclée De Brouwer 1981, Francesco d’Assisi, il ritorno al Vangelo, Eloi Leclerc, p. 125 à 148.. Tuttavia, non si ispira ad una volontà premeditata di riforme. Da questo deriva senza dubbio quella chiarezza che gli è propria. «Una volontà particolare e meditata, nota P. Lippert, ha quasi sempre come conseguenza il fatto di perturbare la vita, di renderla meno pura. La volontà di arrivare a tutti i costi, di riformare, di protestare, di combattere ad ogni prezzo, questa volontà è raramente esente di egoismo e di amor proprio, di violenza e di durezza di cuore; ecco perché indebolisce e sporca la vita per la quale pretende di lottare. Là dove, al contrario, la vita vera e zampillante puo’ restare pienamente sé stessa, là dove puo’ affermarsi, costruire, benedire e donare, allora ella gode, in quel momento, di una incredibile libertà * P. LIPPERT: La Bontà, Parigi, 1946, p. 115-116....»

Bisognerà sempre scegliere tra una società che si dà come scopo quello di governare gli altri e di sottometterli, ed una società che si propone innanzitutto di servirli e di renderli felici. Il primo tipo di società lamina gli individui per farne gli strumenti di una politica o di un’ideologia; il secondo vede in ogni persona un valore unico de promuovere: ogni essere umano rappresenta qui una vita originale, irriducibile, e che porta in sé la propria legge di crescita. Francesco sceglie il secondo tipo di società, il solo, a dire il vero, che convenga ad una fraternità. Su questo punto, come su tanti altri, è aperto alle aspirazioni profonde del suo tempo.

Francesco non ha mai cessato di rivendicare per sé stesso e per i suoi fratelli la libertà di vivere secondo il Vangelo, seguendo l’ispirazione del Signore. La rispetta in ciascuno di loro. Quindi, non si tratta di imporre un modello né di governare, ma di permettere al più umile dei fratelli di vivere anch’egli l’avventura del Regno, di aprirsi liberamente allo Spirito del Signore e di lasciarsi condurre da Lui. «E’ lo Spirito Santo – dice – che è ministro generale dell’Ordine; e riposa tanto sui poveri e sui semplici quanto sugli altri» (2 C 193). «Che i fratelli considerino che devono soprattutto desiderare di ricevere lo Spirito del Signore e di lasciarlo agire in loro.» (2 Reg 10 9).

Abbiamo un esempio particolarmente illuminante di questa maniera di agire di Francesco nella lettera per Frate Leone. Questi lo aveva consultato a viva voce su un punto di osservanza. Ecco cio’ che Francesco gli scrive: «Fratello Leone, tuo fratello Francesco ti augura salute e pace! Figlio mio, io ti parlo come una madre parla a suo figlio. Tutto cio’ di cui abbiamo parlato lungo la strada, te lo riassumo in una frase e in un consiglio… Adotta la maniera di piacere al Signore Dio e di seguire le sue tracce e la sua povertà che ti sembra migliore, qualunque essa sia, con la benedizione del Signore e con il mio permesso…»

Articolo 16.

Considereranno il lavoro come un dono e come un mezzo per partecipare alla creazione, alla redenzione e al servizio della comunità umana. * Vaticano II, cost. sulla Chiesa nel mondo attuale 67 2; San Francesco, 1 Reg 7 4; 2 Reg 5 1.

San Giuseppe artigiano, protettore del mondo del lavoro

Modello di lavoro, di fedeltà, di devozione, San Giuseppe artigiano, Padre virginale del Figlio di Dio, era predestinato a diventare il protettore del mondo del lavoro * Il riconoscimento della grandezza di Giuseppe è stato esplicitamente percepito dalla Chiesa solo gradualmente. La grande celebrazione di San Giuseppe, il 19 marzo, rimonta soltanto al XV secolo. Noi riconosciamo in lui oggi un insigne protettore della Chiesa. La proclamazione di Giuseppe come patrono della Chiesa universale rimonta all’8 dicembre 1870. . «Non è forse il figlio del carpentiere?» dicevano del Salvatore. Giuseppe, conosciuto a Nazareth come lo sposo di Maria e il padre di Gesù * Molti teologi, tra cui Suarez, hanno notato che San Giuseppe occupa un posto a parte negli annali della santità: mentre gli altri santi hanno giocato un ruolo al servizio della Chiesa, Corpo mistico di Cristo, Giuseppe è preposto, come Maria, al ministero stesso del Figlio di Dio nel mistero della sua Incarnazione. , uomo giusto, saggio e prudente, paziente e buono, senza altre risorse che il suo lavoro, Giuseppe, che fuggiva la grandiosità, ci sembra il modello compiuto del lavoratore secondo il Cuore di Dio.

I racconti dell’infanzia del primo Vangelo sono centrati sul personaggio di Giuseppe, al quale, nella Sacra famiglia, è costantemente riservato il ruolo attivo. Giuseppe fa prova, senza sosta, di una sottomissione totale e silenziosa alla volontà di Dio, e questo nella notte della fede, perché Dio non opera alcun prodigio che sarebbe semplicemente destinato a semplificargli il compito. E Giuseppe si sottomette senza dire nulla; non ci è stata trasmessa nessuna parola di Giuseppe; obbedisce a Dio senza fargli domande; nessuno più di lui (a parte la Vergine Maria) si è lasciato condurre cosi’ docilmente dallo Spirito Santo. * Da: P. André Feuillet, P.S. Sulp., Il Salvatore Messianico e Sua Madre nei Racconti dell’infanzia di San Matteo e di San Luca, Divinitas di Gennaio 1990, p. 150.

Chiederemo quindi a San Giuseppe di accompagnarci nei brevi commenti che seguono.

Il lavoro è un dono

Il segno della familiarità dell’uomo con Dio, è che Dio lo pone nel suo giardino. Vive li’ «per coltivare la terra e custodirla» (Gn 2 15). Considerato secondo questo primo significato, il lavoro è un dono che il Signore fa all’uomo. Il Signore ci invita costantemente ad accettarlo: «Andate anche voi nella mia vigna». Questo invito supera largamente la cornice del lavoro sociale ed il lavoro umano fa parte della risposta dell’uomo a Dio. Infatti, il lavoro umano è anche un dono, un’offerta che l’uomo rende a Dio. È il secondo significato del dono: «I laici, in virtù della loro consacrazione a Cristo e dell’unzione dello Spirito Santo, ricevono la vocazione ammirabile ed i mezzi che permettono allo Spirito di produrre in essi dei frutti sempre più abbondanti. In effetti, tutte le loro attività, le loro preghiere e le loro imprese apostoliche, la loro vita coniugale e familiare, le loro fatiche quotidiane, i loro momenti di distensione dello spirito e del corpo, se sono vissuti nello Spirito di Dio, ed anche le prove della vita, se vengono sopportate pazientemente, tutto questo diventa "offerta spirituale, gradita a Dio attraverso Gesù Cristo" (1 P 2 5). Nella celebrazione eucaristica, queste offerte si uniscono all’oblazione del Corpo del Signore, per essere presentate in tutta pietà al Padre. In tal modo i laici consacrano a Dio il mondo stesso, rendendo ovunque un culto di adorazione a Dio nella santità della loro vita * CEC 901

Come San Giuseppe artigiano, impregnamo il nostro lavoro di fede, di speranza e di carità, al fine di ottenere questa trasfigurazione divina dei compiti ordinari. Questo spirito sorpannaturale ci eviterà il malcontento e il cattivo umore. Secondo l’esempio del santo Patriarca, che la preghiera si unisca al nostro lavoro affinché il nostro lavoro divenga preghiera.

Il lavoro è un modo di partecipare alla creazione

Il lavoro umano procede direttamente dalle persone create ad immagine di Dio e chiamate a prolungare, le une con e per le altre, l’opera della creazione dominando la terra. È cio’ che indica con forza la Genesi: «Dio creo’ l’uomo a sua immagine [...], maschio e femmina li creo’. Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e dominatela» (Gn 1 27-28). Il lavoro è quindi un dovere: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2 Th 3 10) ci dice San Paolo. Francesco stesso aggiungerà nel suo testamento: «... io voglio lavorare; e voglio fortemente che tutti i fratelli si dedichino ad un lavoro onesto. Coloro che non sanno per nulla lavorare, che imparino, non per il desiderio avido di ricevere un salario, ma per il buon esempio e per scacciare l’ozio.» (Test 20-22). Vediamo qui che non bisogna ridurre la nozione di lavoro al solo limite del lavoro professionale remunerato. Il lavoro viene compiuto ugualmente attraverso il buon esempio che la mamma dà ai suoi figli occupandosi attivamente delle cose di casa; anche il giovane adolescente che aiuta i suoi genitori o i suoi amici nei diversi compiti della vita quotidiana compie un lavoro che scaccia l’ozio; e anche l’uomo colpito dalla disoccupazione economica puo’ compiere un lavoro per dare il buon esempio e per scacciare l’ozio * Non è il momento, qui, di trattare del terribile problema della disoccupazione. Diamo semplicemente un aneddoto di vita vissuta per mostrare quali azioni sono talvolta messe in opera per lottare contro alcuni danni possibili della disoccupazione (e non contro la disoccupazione stessa, in un primo tempo). In alcune grosse agglomerazioni, alcune famiglie sono colpite dalla disoccupazione da molte generazioni, ossia, non si lavora «di padre in figlio». Le ripercussioni che provoca un padre ozioso a domicilio sulle nuove generazioni sono enormi. Delle organizzazioni hanno messo in atto degli atelier per «fare uscire» il capo famiglia dal suo domicilio fin dal mattino al fine di insegnargli i rudimenti di un lavoro (che alla fine della formazione non potrà probabilmente esercitare a causa di numerosi altri criteri, ma l’obiettivo primario non è questo). Il fatto stesso di alzarsi presto, obbliga il capo famiglia ad andare a dormire presto. Cosi’ non puo’ più guardare la televisione bevendo dell’alcool fino alle due del mattino, con tutti i suoi figli che non ha mandato a dormire e che sono là, sonnolenti, davanti alla televisione. Se il capo famiglia mostra l’esempio e si corica ad un’ora ragionevole, potrà chiedere ai suoi figli di andare a letto di buon’ora. Costoro, allora, avranno una vita più equilibrata e quindi disporranno di nuove risorse per la loro vita futura. Più tardi, l’esempio di loro padre potrà servire loro di riferimento per la loro vita familiare e professionale. .. Il lavoro onora i doni del Creatore ed i talenti ricevuti. * CEC 2427 Il lavoro non è una pena, ma la collaborazione dell’uomo e della donna con Dio nel perfezionamento della creazione visibile * CEC 378.

Il carpentiere di Nazareth, trasformando dei tronchi d’albero in travi di tetto o in mobili, ci dà l’esempio tipo del regno dell’uomo sulla creazione. Non si trovano, nel mondo creato, delle travi di tetto già fatte, per citare solo questo. Ma la sottomissione intelligente e misurata di cio’ che la natura ci offre (gli alberi che vengono abbattuti e i giovani alberi che vengono in seguito piantati per rimpiazzarli) fa partecipare il lavoro umano alla creazione. Noi non abbiamo sempre coscienza della dignità del lavoro umano, della sua importanza nella sua partecipazione alla creazione. Tuttavia la liturgia proclama questa dignità: «Dio, tu hai fatto l’uomo a tua immagine e tu gli hai affidato l’universo, affiché servendo Te, suo creatore, regni sulla creazione * Preghiera eucaristica IV.» Questa dignità del lavoro umano emerge anche in maniera luminosa nel rito di preparazione dei doni: «Tu sei benedetto, Dio dell’Universo, tu che ci doni questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, [...] tu che ci doni questo vino, frutto della vigna e del lavoro dell’uomo…

Il lavoro è un modo di partecipare alla redenzione

Il lavoro puo’ anche essere redentore. Sostenendo la pena del lavoro «con il sudore della fronte» (Gn 3 14-19) in unione con Gesù, l’artigiano di Nazareth ed il Crocifisso del Calvario, l’uomo collabora, in un certo modo, con il figlio di Dio alla sua Opera redentrice. Si mostra discepolo di Cristo portando la croce, nell’ attività che è chiamato a compiere. Il lavoro puo’ essere un mezzo di santificazione ed un’animazione delle realtà terrestri nello Spirito di Cristo. * Da CEC 2427 et 1609

La presenza di Gesù nell’officina di Nazareth insegna a San Giuseppe il prezzo delle ore pesanti e la dura fatica accettata come una riparazione per l’impudenza dell’uomo nel trascurare le leggi di Dio. Artigiano con Dio creatore, fratello di lavoro di Gesù che fu suo operaio, associato con Lui nel riscatto del mondo, San Giuseppe non attirerà mai troppo gli sguardi e le preghiere del nostro secolo. Per questo la Chiesa, ispirandosi alla Tradizione che un tempo battezzo’ numerose feste pagane per dare loro un contenuto cristiano totalmente nuovo, mise la festa civile del lavoro sotto il potente patronato di San Giuseppe. Lavoratore tutta la sua vita, chi meglio di lui rese grazie a Dio Padre nella sua fatica di ogni giorno? E’ questo modesto artigiano che Dio scelse per vegliare sull’infanzia del Verbo incarnato venuto a salvare il mondo con l’umiltà della croce.

Il lavoro è servizio della comunità umana

Nel lavoro, la persona esercita e attualizza una parte delle capacità inscritte nella sua natura. Il valore primario del lavoro riguarda l’uomo stesso, che ne è l’autore e il destinatario. Il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro * CEC 2428.

La partecipazione si realizza innanzitutto con il farsi carico dei settori dei quali l’uomo si assume la responsabilità personale: attraverso la premura con cui si dedica all’educazione della propria famiglia, mediante la coscienza con cui attende al proprio lavoro, egli partecipa al bene altrui e della società. * CEC 1914

Diligenza, applicazione, costanza, serenità, abnegazione, tali sono le qualità del buon lavoratore. La preoccupazione di compiere la volontà del Padre che ha detto: «mangerai il pane col sudore della tua fronte» animava l’animo di Giuseppe artigiano. Con il suo esempio, Giuseppe ci insegna l’umiltà e la gioia del lavoro compiuto. Quando abbiamo, come dice l’apostolo, il cibo ed il vestito, che ci si accontenti; che ci si tenga al necessario, senza aspirare al superfluo. Impariamo dal santo carpentiere di Nazareth a pensare al lavoro non come ad una schiavitù, ma come ad un privilegio di grandezza e di nobiltà. Grandezza e nobiltà per la propria anima, poiché il lavoro santifica l’uomo. Grandezza e nobiltà per la propria famiglia, poiché il lavoro onesto permette di mostrare il buon esempio ai propri figli e di assicurare la loro sussistenza. Grandezza e nobiltà per la comunità umana, poiché il lavoro serve all’edificazione della società ed alla felicità di tutti.

DOMANDE

Ho memorizzato bene?

  1. La Parola di Dio non è necessariamente facile a comprendersi. La nostra intelligenza puo’ «bloccarsi» su un aspetto o su un altro; il nostro ego puo’ persino farci allontanare dall’essenziale del messaggio che ci viene rivolto. Quali sono i differenti sensi contenuti nella Parola di Dio che, quando uno li sa scoprire, permettono di comprendere, con tutta la forza della propria anima, questa Parola di Dio? Posso scegliere, tra i riferimenti evangelici proposti alla pagina seguente, un testo e ricercare in questo i diversi sensi della Parola?
  2. Francesco mi invita ad una lucida interrogazione: quella di sapere a che punto sono nella mia vita spirituale, ossia rispetto alla vita dello Spirito di Cristo in me. Che cosa posso «utilizzare» come «vero barometro» della mia vita interiore reale per sapere a che punto sono nella mia vita spirituale?
  3. Geremia, profeta del Signore, ha avuto la difficile missione di annunciare la Parola di Dio ai suoi fratelli. Qual’è quindi la frase di introduzione che ritorna, nella bocca del profeta, come un vero e proprio leitmotiv prima di ogni suo intervento?

Per approfondire

  1. Il rito della preparazione dei doni, che apre la liturgia Eucaristica, comincia con queste parole: «Tu sei benedetto, Dio dell’universo, tu che ci doni questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te perché diventi per noi pane di vita eterna.» Allo stesso modo, poco dopo, il sacerdote dice: «Tu sei benedetto, Dio dell’universo, tu che ci doni questo vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te, perché diventi per noi bevanda di salvezza.» Perché la liturgia fa una distinzione tra «il frutto della terra e della vite» e il «lavoro dell’uomo»?
  2. Essere fratello è convertire il mio istinto di dominazione in volontà di servizio. Quali sforzi devo fare, quali mezzi devo impiegare per convertire questo istinto di dominazione che sonnecchia in me nelle mie relazioni sociali, coniugali, fraterne, amicali, professionali e altre, in volontà di servizio? E chi puo’ aiutarmi in questa conversione quotidiana?
  3. Andate, anche voi, nella mia vigna! Quando il Signore ci parla, mi parla. Senza escludere il plurale utilizzato dal Signore («andate»; «voi») che porta una ricchezza di senso che non dobbiamo assolutamente corrompere o diminuire, posso tradurre questo invito personalizzandolo un po’. Allora suonerebbe cosi: Va, anche tu, nella mia vigna, affinché avvenga il Regno di Dio! Cosa posso fare per rispondere meglio a questo invito, a questa volontà di Dio nella mia vita quotidiana?

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Realizzato da www.pbdi.fr Illustrazione di Laurent Bidot Traduzione : Elisabetta Daturi